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L’incontro di due mondi: la fotografia in Cina nel XIX secolo

La fotografia: Giappone e Cina in posa
a cura di Elisa Vecchione​

La diffusione della fotografia in Cina coincise con una fase storico-culturale particolare: l’ingresso forzato degli occidentali nel paese.
La Cina, che era sin dal 1644 dominata dalla dinastia mancese dei Qing, era regolata da una politica interna ed estera fortemente conservatrice.
L’uscita dal feudalesimo, avviata due secoli prima, aveva portato all’eliminazione del particolarismo dei poteri locali, a favore di una forte burocrazia centralizzata, ma da un punto di vista sociale ed economico la situazione non era di fatto mutata. Il paese appariva regolato da una struttura caratterizzata da un’evidente immobilità delle classi sociali che creava forti disparità tra la popolazione agricola e i proprietari terrieri, detentori dei diritti sui loro beni.
Il potere era esercitato dai Mandarini, funzionari dell’Impero di Centro, che conservavano il monopolio sulla cultura e sull’ideologia. Il loro ruolo era tramandato da generazione in generazione e rappresentando le classi dei possidenti ne garantivano la tutela.
Nonostante questo rigore, le condizioni della Cina dei primi decenni dell’Ottocento rivelano un quadro assai drammatico.
L’economia, basata prevalentemente sull’agricoltura, non riusciva a soddisfare i bisogni primari della classe contadina che rappresentava, in numero, la maggior parte della popolazione. Il crescere della miseria, con l’aumento demografico, portò il paese a disporre di poche risorse necessarie per la sussistenza. Frequenti furono i disordini interni, atti a minare una struttura sociale che limitava la possibilità di miglioramento delle classi subalterne.

L’opposizione ribelle assunse la forma delle società segrete: gruppi, costituiti prevalentemente da persone provenienti dalle classi povere e spinti da un forte sentimento contro la classe dirigente ritenuta responsabile della propria miseria.
In un’atmosfera così instabile si innestarono le prime forti pressioni da parte degli occidentali, che chiedevano l’apertura del paese al loro commercio.
L’unico porto aperto era infatti quello di Canton, dove il monopolio era affidato a mercanti cinesi, che stabilivano i prezzi per gli scambi commerciali con gli occidentali.
Ma gli inglesi riuscirono a violare il rifiuto, imposto dalla Cina, a far circolare liberamente le proprie merci, attraverso il mercato nero e il commercio dell’oppio. I traffici illeciti portano corruzione e criminalità. Lo Stato cercò di farsi forte. Nel 1839 venne istituita la pena di morte sia per i trafficanti che per i consumatori di oppio. Ma l’applicazione delle norme non trovò riscontro, tanto che il governo fu costretto ad intervenire con arresti e confische. Vennero distrutte 20.000 casse di oppio, introdotte nel paese da imbarcazioni inglesi, e chiuso il porto di Canton ai loro traffici. Gli inglesi risposero con il fuoco dando inizio a quella che passerà alla storia come la prima Guerra dell’Oppio (1839-1842). In seguito venne sottoscritto il Trattato di Nanchino, tra la Cina e il Regno Unito. Vennero aperti i primi cinque porti (Canton, Xiamen, Fuzhou, Ningbo, Shanghai), al commercio internazionale e ceduta Hong Kong agli inglesi.
Questo fu il primo di una lunga serie di accordi a sancire sostanziali modifiche sulle condizioni di accesso degli stranieri nel paese.
Tra il 1856 ed il 1860, la seconda Guerra dell’Oppio, contro Inghilterra e Francia portò alla stipula di nuove trattative: quella di Tientsin nel 1858 e di Pechino nel 1860.
Vennero aperti undici nuovi porti, dato il libero accesso agli occidentali alla rete fluviale e ai missionari e ai mercanti la libertà di circolare all’interno del paese.
Con queste premesse, l’evidente ostilità, da parte del potere effettivo, verso qualsiasi tentativo di rinnovamento determinò una lenta apertura nei confronti delle innovazioni tecnologiche introdotte dagli occidentali, ivi compresa la fotografia.

La diffidenza che l’uso della fotografia suscitò circoscrisse l’iniziale produzione di immagini alle sole città portuali e agli insediamenti urbani lungo il fiume Yangtze, il cui accesso era permesso agli inglesi.
Si manifestarono forti pregiudizi nei confronti dell’uso della macchina fotografica tanto che i fotografi stranieri dovettero escludere dalle loro riprese la Cina Imperiale nel suo complesso. L’uso dello strumento, non essendo esplicitamente chiaro, veniva poi da molti  considerato diabolico e capace ad evocare gli spiriti maligni.
Una forte discriminazione razziale teneva, poi, lontani i cinesi dalle zone poste sotto il controllo degli occidentali.
Come ogni forma di espressione artistica, anche la fotografia in Cina rappresentò, il riflesso drammatico della storia politica e sociale che il paese stava vivendo in quegli anni.
La gran parte del patrimonio visivo, legato a questa epoca, venne distrutto, in seguito, durante la Rivoluzione Culturale.
E’ difficile ricostruire un quadro complessivo che riveli l’effettiva situazione nel paese.

I primi fotografi furono probabilmente dei viaggiatori, dilettanti o semiprofessionisti, che non si spinsero mai nell’entroterra.
Le notizie disponibili ci riferiscono che la fotografia raggiunse la Cina poco dopo la sua invenzione. Le prime testimonianze sull’uso del dagherrotipo sono del luglio del 1842 (The life of Sir Harry Parkes), ma nessuno di questi esperimenti si è conservato. Si possono invece ancora ammirare, presso il Museo francese di Fotografia a Parigi, i dagherrotipi realizzati dall’ ispettore doganale francese Jules Itier (1802-1877), che giunse in Cina come membro della delegazione per il negoziato commerciale con la Francia del 1844. In quella occasione realizzò dagherrotipi di ritratti di persone locali e di vedute di Aomen (Macao) e Guangzhou (Canton), immagini che vennero pubblicate in varie edizioni di giornali di viaggio in Cina. Sorsero numerose attività commerciali legate alla fotografia. Il primo studio di dagherrotipi venne aperto da un certo Mr West (?), un fotografo itinerante, ad Hong Kong.
Nel giornale locale pubblicato in lingua inglese, il China Mail, si fa menzione in un annuncio dell’inaugurazione nel quartiere di Sydenham vicino alla via Queen il 13 marzo del 1845. Anche altri professionisti utilizzarono la stampa per pubblicizzare la propria attività. Comparvero numerosi trafiletti con la descrizione degli atelier e le informazioni su orari e servizi offerti anche sulla Friend of China and Hong Kong Gazzette.

Ma, agli inizi, la compravendita di fotografie non sviluppò un mercato fiorente. Negli anni seguenti l’unico commercio che ebbe un’importante incremento ruotava attorno all’attività delle missioni cristiane.
I missionari, infatti, erano i soli che potevano spingersi nelle zone interne del paese e utilizzarono la fotografia per testimoniare la loro opera di evangelizzazione. Riuscirono a documentare chiese ed edifici di culto ed altre strutture, nelle quali praticavano, come scuole ed orfanotrofi. Queste immagini venivano poi stampate su riviste religiose in Europa per sollecitare aiuti economici.
Nonostante la produzione iconografica fosse limitata a questo specifico ambito, che coinvolgeva per lo più l’ambiente ecclesiastico e i suoi fedeli, l’Occidente nutriva una forte curiosità anche sotto altri aspetti. Le prime fotografie di soggetti legati alla vita locale che raggiunsero l’Europa e l’America arrivarono sotto forma di album fotografici, carte de visite, stereografie e cartoline. Come avvenne negli stessi anni per il Giappone, anche la Cina fu oggetto di culto legato prevalentemente al desiderio di scoprire un luogo lontano ed esotico.
I primi atelier aperti da professionisti si ebbero solo verso la fine degli anni ’50, quasi venti anni dopo l’ufficializzazione dell’invenzione della fotografia.
Nelle città poste sotto il controllo europeo dopo i Trattati di Tientsin e di Pechino, iniziò a prendere piede un mercato che portò ad una fiorente industria di studi fotografici. Secondo il China Imperial, come riportato in uno studio del Getty Research Istitute di Los Angeles, tra il 1846-1912 c’erano in Cina 84 fotografi commerciali e amatoriali; 60 dei quali occidentali. Passando in rassegna alcune di queste attività è possibile delineare un quadro che ci dia nota, in parte, dello sviluppo del mercato fotografico in molte città.
A Shanghai troviamo tra gli anni ’60 e ’90 dell’Ottocento numerosi atelier fotografici.

Il primo studio fotografico di proprietà di un cinese fu quello di Luo Yuanyuo attivo tra il 1850 e il 1860. Il francese Louis Legrand aprì il suo studio nel 1857. Egli fu anche chiamato tre anni dopo ad accompagnare le truppe francesi per documentare la spedizione Anglo-Francese nella Cina del nord durante la Seconda Guerra dell’Oppio.
L’inglese William Saunders (1832-1892) si stabilì tra il 1862 e 1887 e lavorò soprattutto nel settore della ritrattistica. Le sue fotografie contribuirono alla diffusione della conoscenza degli usi e dei costumi di questa città in tutto l’Occidente. Pubblicò nella rivista Estremo Oriente (Shanghai) e nell’Illustrated London News. Nel 1871 realizzò un importante opera, Portfolio of Sketches of Chinese Life and Character, nella quale vennero pubblicate 50 immagini raffiguranti scene di vita locale legate soprattutto ad aspetti tradizionali.
Altri furono L.F. Fisler che operò tra il 1871 e il 1884; Kung Tai (Gongtai) che, tra il 1860 e il 1890, impostò la sua attività commerciale sopratutto nel settore della ritrattistica per clienti stranieri.
Sze Yuen Ming si stabilì verso la fine degli anni ’90 dell’Ottocento e rimase attivo fino al 1920. Ritrasse soggetti locali; famose divennero le sue immagini raffiguranti cortigiane d’alto bordo, che rappresentarono un vero e proprio status symbol e furono oggetto di scambio. Queste fotografie di eleganti bellezze delicatamente colorate a mano vennero anche utilizzate per la realizzazione di cartoline.
Hong Kong, città ceduta agli inglesi sin dal 1842 con il Trattato di Nanchino, divenne da subito un centro di passaggio per molti viaggiatori e imprenditori, ma qui lo sviluppo di attività commerciali legate alla fotografia tardò a decollare e si ebbe appena attorno agli anni ’60 dell’Ottocento. Tra queste rilevante l’atelier di Weed e Howards e quello di Lai Afong (Lai Afang). Quest’ultimo aprì la sua attività attorno al 1859, che durò per tre generazioni, fino al 1941. Egli ebbe molti contatti con fotografi occidentali e assunse gli stessi canoni interpretativi nella raffigurazione dei ritratti. Anche se attribuite ad autore anonimo, due immagini, presenti nelle collezioni della fototeca, meritano di essere analizzate conmaggiore attenzione: quella di un Mandarino cinese (Fototeca, inv. 25735) e quella di un Imperatore cinese (Fototeca, inv. 1904959). Queste due fotografie presentano infatti elementi d’arredo comuni ad un’immagine realizzata dal cinese Lai Afong dal titolo Western man in chinese costume (1885 ca.) e conservata presso la National Gallery of Australia a Canberra.

Il tavolino su cui poggiano i soggetti ritratti, il vaso di crisantemi e persino il vaso poggiato a terra compaiono quasi identici nell’immagine del fotografo cinese. Non è possibile stabilire un’attribuzione certa, ma non è escluso che le immagini siano state realizzate proprio nello stesso studio fotografico, o comunque in un atelier che riproponeva canoni estetici molto simili a di quello di Lai Afong, con il quale l’esecutore dello scatto deve evidentemente avere avuto contatto.
A Pechino sede del governo centrale e roccaforte della tradizione ufficiale, ostile alla divulgazione della cultura occidentale si dovrà, invece, aspettare sino al 1892 per vedere aperta la prima attività fotografica, La Fregai, da parte del cinese Ren Jingfeng (1850-1932) mentre già dal 1871 al 1889 aveva il suo atelier l’inglese Thomas Child.
A Fuzhou, Ningbo e a Canton aprirono studi fotografici, per lo più fotografi dilettanti, che non raggiunsero mai una certa popolarità; tra questi merita di essere ricordato F. Schoenke che ebbe la sua attività dal 1861 al 1875.
Tra i più importanti fotografi stranieri che operarono in Cina troviamo personalità di spicco tra le quali, oltre al già citato William  Saunders (attivo 1862-1888, d. 1892): Felice Beato (ca. 1825-ca. 1908); di rilievo le sue immagini che documentano la Seconda Guerra dell’oppio e quelle del Palazzo d’Estate, residenza estiva dell’Imperatore, precedenti ai saccheggi compiuti dalla Prima Divisione Britannica per rappresaglia contro l’uccisione di un gruppo di membri della rappresentanza diplomatica Alleata. John Thomson (1837-1921) che aprì lo studio ad Hong Kong e dedicò la sua opera soprattutto alla raffigurazione dei soggetti locali e alle varie etnie presenti nel paese. Nella stessa città Milton Miller, attivo dal 1860 al 1864, rivelatosi anch’esso un abile ritrattista.
Inizialmente i fruitori di questi studi erano per lo più stranieri, dati gli alti costi con i quali questi prodotti venivano venduti. Anche i professionisti locali, come abbiamo visto, orientarono la loro attività verso il mercato estero, pubblicizzando la loro merce anche in inglese.

La fotografia era sentita come mezzo di espressione prevalentemente occidentale e anche quando veniva praticata da cinesi, rispondeva al gusto degli stranieri, che ne erano i principali fruitori. Il lento ammodernamento della società cinese in seguito, portò nuova ricchezza e la nascita di una classe borghese che non tardò ad ostentarla e, così come accadde in Occidente, la fotografia divenne il mezzo più eloquente per rappresentare una classe sociale che voleva essere rappresentata, iconograficamente, e promossa.
La produzione delle certe de visite fu immensa, tanto che l’utilizzo di questi piccoli oggetti non veniva sfruttato solo dalla classe borghese per pubblicizzarsi, ma anche dalle prostitute di alto bordo, di Shanghai e di Tinajin, per la stessa ragione. I fotografi cinesi erano molto affascinati dalla ritrattistica, che doveva rispondere a canoni occidentali, ma che privilegiava la postura frontale.

Tutte le carte de visite analizzate rappresentano questo tema.

È possibile fare una distinzione in soggetti generici, la cui raffigurazione veniva proposta semplicemente per rappresentare delle tipologie legate alla tradizione, e soggetti specifici, nei quali confluiscono i ritratti rappresentanti esponenti del potere.

Nel primo gruppo: la Donna cinese seduta (Fototeca, inv. F190496), la Coppia di cinesi in casa (Fototeca, inv. F190497), Uomo e ragazzo cinesi (Fototeca, inv. F25739), Suonatori cinesi (Fototeca, inv. F190498). Nel secondo: l’Imperatore della Cina (Fototeca, inv. F37089), il Figlio dell’Imperatore della Cina (Fototeca, inv. F25733), il Mandarino cinese (Fototeca, inv. F25735), la Principessa cinese (Fototeca, inv. F190494), l’Imperatore cinese (Fototeca, inv. F190495), il Mandarino cinese capo della polizia (Fototeca, inv. F190493).

Se tralasciamo, di questo secondo gruppo, il ritratto dell’Imperatore della Cina (Fototeca, inv. F37089), che è l’evidente riproduzione di una xilografia di Xianfeng [?] (1831-1861), appartenente alla dinastia Qing, le altre immagini ritraggono in realtà dei soggetti comuni vestiti con abiti particolari, atti a rappresentare quella determinata figura sociale: la principessa, l’imperatore, il mandarino.

Altri temi erano la fotografia di carattere paesaggistico e la rappresentazione di scene di vita quotidiana.

ANONIMO-MANDARINO CINESE, [Cina, 1880]
ANONIMO-MANDARINO CINESE, [Cina, 1880]
ANONIMO - PHYSIC STREET DI CANTON, [Canton, 1867-1872]
ANONIMO - PHYSIC STREET DI CANTON, [Canton, 1867-1872]

A riguardo, delle tre stereoscopiche: Gruppo di donne di Canton al lavoro (Fototeca, inv. 26084), Strada a sud di Canton (Fototeca, inv. 26085) e Physic Street di Canton, (Fototeca, inv. 26086), la prima rientra nel genere della mise en scene, in esterno, di cui si è detto per la fotografia in Giappone; le altre due, al contrario, riproducono un’evidente realismo.

Anche la fotografia topografica, legata alle rappresentazioni paesaggistiche o architettoniche, rispondeva al gusto estetico dello straniero, tanto che molto spesso veniva realizzata dai fotografi occidentali e le immagini vendute poi negli studi fotografici cinesi.

La rappresentazione del quotidiano, infine, definiva esclusivamente scene di vita pubblica che dovevano trovare una corrispondenza nella società occidentale: matrimoni, funerali, cerimonie in genere.
La fotografia, così come avvenne in Giappone e del resto anche in Europa, non fu indifferente nemmeno ai canoni dell’arte tradizionale.
In Cina la pittura era caratterizzata da una forte componente didattica. Essa era, vista come uno strumento capace di educare e di comunicare all’osservatore valori etici e morali. Il pittore veniva considerato come un vero e proprio saggio.
I principali temi trattati erano: i paesaggi, i ritratti, gli uccelli e gli animali, i fiori e le piante. La pittura privilegiava in questo senso le tematiche naturalistiche e raramente raffigurava l’uomo. Gli elementi naturali erano connotati da un forte simbolismo. I fiori erano allusioni che demandavano l’osservatore ad un piano più alto: quello dell’etica e della morale. Così un susino veniva disegnato per simboleggiare la primavera, un crisantemo l’autunno, gli steli del bambù rappresentavano la longevità e l’amicizia perenne e richiamavano il carattere del saggio, che non appassiva ed era indifferente a qualsiasi tentazione. Alcuni di questi elementi compaiono nelle fotografie come oggettisimbolo.

ANONIMO - FUMATORI DI OPPIO CINESI, [Cina, 1890]
ANONIMO - FUMATORI DI OPPIO CINESI, [Cina, 1890] Albumina, formato carte de visite Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte, Fototeca, inv., inv F6901
ANONIMO PORTANTINA CINESE, [Cina, 1864] Albumina, formato carte de visite Trieste, Civici Musei di Storia ed Arte, Fototeca, inv. 14895
La raffigurazione di un soggetto non era mai fine a se stessa: la rappresentazione del bello era sempre legata al suo significato metaforico. Un altro elemento legato alla pittura prima e alla fotografia poi era la scrittura. La calligrafia cinese (pinyin shūfā : “l’arte, la disciplina della scrittura), recentemente iscritta dall’UNESCO tra i Patrimoni orali e immateriali dell’umanità, considerata una vera e propria forma di arte e di cultura, è caratterizzata da segni non convenzionali, ma raffigurazioni di cose reali. Così come si è rilevato per la fotografia in Giappone, tra le immagini della Cina, quelle che riportano la raffigurazione di tratti calligrafici, anche se poco significative da un punto di vista interpretativo, sono le due albumine stereoscopiche riprese in esterno: Physic Street di Canton (Fototeca, inv. 26086) e Strada a Sud di Canton, (Fototeca, inv. 26085). In queste immagini, i manifesti esposti, delle attività commerciali, pubblicizzano la vendita di vari prodotti come: spezie, cuscini, foche e inchiostro. Gli ideogrammi ritratti in questo caso sono determinanti anche nella resa estetica di queste immagini. Nella pittura, i brani scritti venivano usati per rafforzare l’elemento comunicativo già insito nella raffigurazione. La produzione iconografica era standardizzata. Seppure minima la collezione di immagini provenienti dalla Cina: 11 albumine formato carte de visite (delle quali una priva di cartoncino), 3 albumine formato stereoscopico e un ulteriore albumina fuori formato (anch’essa priva di supporto cartonato); si può, a riguardo, confrontare l’immagine realizzata in Cina dal fotografo di viaggio Wilhelm J. Burger, Ragazza cinese (F25941) con quella della Donna seduta (Fototeca, inv. 190496). Le due donne sono sedute nella stessa posa. Il profilo quasi totale per il volto e il semiprofilo del corpo definiscono una analoga staticità. Le gambe sono accavallate e i piedi sovrapposti. L’acconciatura è identica; come pure l’arredamento dello studio. Sul tavolino in entrambe le immagini: un vaso con dei fiori, una pipa e una teiera. La maggior parte delle fotografie, realizzate in questi studi fotografici, raffigurano soggetti locali e narrano gli usi e i costumi di questo popolo. Ma oltre ai ritratti le fotografie ci raccontano anche la storia dei loro autori. Ogni immagine è infatti anche la testimonianza estetica del linguaggio del fotografo che l’ha realizzata, ma è assai difficile trarre delle notizie utili per poter effettuare una puntuale attribuzione. Raramente il fotografo firmava la sua opera. Inoltre, come si è potuto vedere per il Giappone, molto spesso gli atelier fotografici venivano venduti o ceduti con all’interno l’intero archivio, frutto del fotografo che aveva cessato la sua attività. Questi materiali venivano poi riutilizzati dai nuovi proprietari, che subentravano in qualche modo anche come proprietari intellettuali dell’oggetto. Al contrario, gli studi fotografici, possono essere rintracciati attraverso l’analisi di alcuni elementi. Gli atelier offrono agli storici notizie preziose che permettono, a volte, di definirne la localizzazione. Un tappeto particolare, un fondale dipinto riconoscibile, un puntello, ad esempio, possono suggerire, attraverso un attento processo di analisi visiva e di confronto, l’attribuzione di un immagine ad uno particolare studio fotografico; e attraverso questo percorso è possibile poi risalire ai fotografi che vi hanno lavorato. Anche dall’analisi del volto delle persone ritratte si possono trarre informazioni utili. Sappiamo che molti di questi soggetti, come è stato rilevato anche per la fotografia giapponese, erano degli attori, che si facevano fotografare da più professionisti in diversi atelier fotografici, ma che solitamente rimanevano nella stessa città. Non è raro infatti trovare lo stesso soggetto in differenti fotografie. Questa analisi ci può aiutare, con una buona approssimazione, a localizzare il luogo delle ripresa. Dobbiamo però avere presente che ci muoviamo in un mare magnum di difficoltà e che la ricomposizione del puzzle a volte può rivelare uno sforzo vano. L’analisi compiuta su questi materiali, come abbiamo visto, ha fatto emergere, seppur in maniera parziale, alcuni elementi utili per meglio comprendere le scelte stilistiche e narrative che questi materiali offrono.

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